La “modica” quantità di CCS, un’ipotesi per scongiurare la catastrofe climatica
Per raggiungere gli obbiettivi climatici servirà almeno un “modica quantità” di CCS? Dopo che i tappi di champagne sono saltati e le pacche sulle spalle sono finite, per l’Accordo sulla riduzione delle emissioni di CO2, firmato a Parigi nel 2015 da praticamente tutte le nazioni del mondo, è arrivato il momento dei primi conti realistici.
E non sembrano molto brillanti: un rapporto Onu uscito nell’autunno scorso ha rivelato che se anche le nazioni
mantenessero quanto promesso a Parigi (e già questa sarebbe un mezzo miracolo, viste le intenzioni di abbandono del trattato da parte del Presidente Usa e il fatto che la Germania ha già ammesso di non poter mantenere gli obbiettivi climatici europei per il 2020), le temperatura del pianeta salirebbero probabilmente di 3 °C al 2100 rispetto al XIX secolo, invece dei +2 °C, obbiettivo minimo dell’accordo di Parigi. In quello massimo, non più di 1,5 °C di aumento, non spera più nessuno.
Certo, le installazioni globali di energie rinnovabili crescono, ma è una crescita relativamente lenta, largamente affidata al mercato, non supportata, per esempio, da una forte tassa internazionale sul carbonio. Per capire quanto si sia lontani dallo sforzo necessario, basti pensare che nonostante i 600 GW di FV installati dal 2011 al 2017, il solare fornisce ancora meno del 2% dell’elettricità mondiale. Di fronte a questa realtà preoccupante Jessica Strefler, con i colleghi del Potsdam Institute for Climate Impact Research, hanno deciso con uno studio pubblicato su Environmental Research Letters, di seguire un approccio pragmatico.
Invece di limitarsi ad invocare solo un continuo aumento di pannelli, auto elettriche e turbine, e la rapida scomparsa dell’industria dei fossili (che pare non abbia nessuna intenzione di morire senza combattere), hanno fatto un po’ di conti su un possibile piano B, introducendo nel quadro la parola proibita «CCS», cioè quella rimozione dall’atmosfera della CO2, per stoccarla poi per sempre in cavità sotterranee. Un’opzione che per quasi tutti gli ambientalisti è una eresia, volta solo a rallentare l’installazione di rinnovabili e far sopravvivere ancora per un po’ di tempo l’industria delle fonti fossili.
«La ragione per cui probabilmente servirà il CCS è semplice», dice Strefler. «Per rispettare gli accordi di Parigi e mantenere l’aumento di temperatura terrestre almeno sotto i 2 °C, bisognerebbe non emettere più di altre 1000 miliardi di tonnellate (Gt) di CO2, oppure non più di 400 GtCO2 per restare sotto gli 1,5 °C; al momento emettiamo circa 31 GtCO2 l’anno e, anche con il rispetto degli accordi di Parigi, raggiungeremo i 38 GtCO2 annui al 2030».
Non c’è bisogno di essere un esperto per capire che in 15 anni di “business as usual” ci saremo mangiati la seconda
possibilità (1,5 gradi) e in 30 anni la seconda quota di emissioni permesse per restare sotto i due gradi. «Per avere una discreta chance di rispettare almeno il livello dei +2 °C, senza rimuovere CO2 dall’atmosfera, dovremmo
invece tagliare da qui al 2030 almeno del 50% le emissioni fossili mondiali, per eliminarle poi del tutto entro il 2050.
È un obbiettivo realistico?», dicono dall’istituto di ricerca. Per ora sembrerebbe di no. Allora i ricercatori tedeschi suggeriscono di prendere in considerazione l’aggiunta di una “minima quantità” di CCS, per rendere fattibile il raggiungimento degli obbiettivi di Parigi. Per capire quanto ne servirebbe, hanno usato un modello computerizzato dell’andamento delle emissioni, e dei costi necessari per contenerle entro dei limiti prefissati, a secondo del mix tecnologico scelto. È risultato che se al 2030 emettessimo ancora 38 Gt di CO2 l’anno, per raggiungere l’obbiettivo dei +2 °C al 2100 bisognerebbe ridurre le emissioni fra il 2030 e il 2050 di ben il 15% annuo, a cui dovremmo poi aggiungere una rimozione dall’atmosfera di 3 GtCO2 l’anno fino al 2100, mentre con una riduzione di solo il 3% delle emissioni annue nel 2030-50, bisognerebbe sottrarne 20 GtCO2 ogni anno.
Per l’obbiettivo del +1,5 °C al 2100, le cose sono ancora più estreme: con una riduzione annua del 15% di emissioni nel 2030-50, bisognerebbe comunque anche rimuovere 12 GtCO2 ogni anno dall’aria fino al 2100, mentre se il calo di emissioni annuo nel 2030-2050 scendesse al 6%, bisognerebbe levarne 20 GtCO2 ogni anno. Per evitare di mettere nei guai i nostri discendenti, obbligandoli a sforzi enormi per evitare una catastrofe climatica, Steffer e colleghi hanno quindi elaborato una strategia ottimale, di compromesso fra realistica riduzione delle emissioni da subito fino al 2050 e l’uso delle tecnologie CCS fra il 2050 e il 2100: non a caso il loro studio si intitola «Fra Scilla e Cariddi», ricordando il difficile cammino che i naviganti nelle storie di Omero, dovevano tenere nello stretto di Messina per evitare di cadere vittime dei due mostri posti ai lati dello stretto.
Questa “linea ottimale”, per arrivare all’obbiettivo del non più di +2 °C al 2100, parte da una stabilizzazione al 2030 delle emissioni a 31GtCO2 l’anno, un non impossibile -20% rispetto a quanto si avrebbe seguendo gli attuali impegni presi dalle nazioni, seguito da un’ulteriore riduzione delle emissioni in atmosfera fra 2030 e 2050 di un realistico 5% annuo; infine una rimozione della CO2 in atmosfera di 8 Gt annue fra 2050 e 2100. «Non che rimuovere 8 Gt di CO2 ogni anno sia una cosa semplice: si tratta infatti delle emissioni prodotte da USA e UE sommate insieme. Per farlo serviranno nuove tecnologie e un’industria dedicata a questa impresa delle dimensioni dell’attuale industria petrolifera».
Insomma, se nel secolo scorso abbiamo costruito un gigantesco apparato industriale per i combustibili fossili, che ha saturato l’atmosfera di CO2, fra ora e il 2050 ne dovremmo costruire un altro, per rimuovere la stessa CO2 dall’aria nella seconda metà del secolo. Sembrerebbe un po’ una follia. «Eppure le nostre stime indicano che, entro quella quantità, sottrarre la CO2 all’atmosfera allora, costerebbe meno che tentare di tagliare drasticamente le emissioni adesso, con le conseguenti enormi spese e probabili reazioni politiche e sociali. La rimozione della CO2 sarebbe sopportabile soprattutto se si usasse l’unico sistema CCS che consente anche di produrre energia: coltivare biocombustibili, per esempio legna a crescita rapida, che assorbe CO2 dall’aria, bruciarli in centrali per produrre elettricità e calore, e poi catturare la CO2 nei fumi e sequestrarla in modo permanente», spiega Strefler.
«Secondo calcoli dell’Onu questa tecnologia costerebbe 36 $/t di CO2 rimossa, contro i 500 $/t del catturare la CO2 con delle macchine direttamente dall’aria. Certo, c’è anche l’opzione riforestazione, che costerebbe sui 25 $/t, ma per ottenere le quantità richieste, servirebbero enormi superfici di terreno, che andrebbero sottratte alla produzione di cibo», conclude l’esperta.
Insomma, visto che non riusciamo a disintossicarci rapidamente da petrolio e carbone, i nostri posteri della seconda metà del secolo saranno costretti bene che gli vada, a spendere ogni anno per evitare una catastrofe climatica almeno 3-400 miliardi di dollari per la rimozione dall’atmosfera della CO2 prodotta da noi.
Fonte: Alessandro Codegoni – QualEnergia