Serve una carbon tax?

Centrale la sostenibilità economica di un’eventuale imposta italiana o Ue sulla CO2, che però sarebbe controproducente senza un’analoga tassa sui prodotti importati

Negli ultimi tempi si sente parlare con crescente interesse di carbon tax, sia a livello europeo, sia nazionale, con diverse organizzazioni che propongono la tassazione sulla CO2 come strumento per promuovere la decarbonizzazione. Il ragionamento di base è semplice: gli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas-serra sono ambiziosi da conseguire ed è difficile pensare di raggiungerli a condizioni attuali senza mettere in campo risorse consistenti. Risorse che una carbon tax potrebbe consentire di raccogliere, stimolando nel contempo efficienza energetica, fonti rinnovabili e cambiamenti comportamentali.

Il tema è rilevante, e le implicazioni di una carbon tax non secondarie, per cui è importante parlarne e ragionare sulle conseguenze prima di poterla eventualmente introdurre. Anzitutto la carbon tax è una tassa applicata alle emissioni di CO2 o ai prodotti la cui combustione porterà alle emissioni (e.g. carbone, benzine, gas naturale). La tassazione, aumentando il costo delle emissioni o dei prodotti che le causano, nelle intenzioni di chi la introduce tende a favorire l’uso di combustibili e soluzioni che riducono le emissioni (e.g. efficienza energetica e fonti rinnovabili, o ricorso a combustibili a minore contenuto di carbonio). Le risorse raccolte attraverso la tassa, inoltre, possono essere investite in incentivi o strumenti di supporto che favoriscano questa trasformazione (o, come nel caso della carbon tax introdotta in Italia dalla legge 448/98, anche a ridurre il cuneo fiscale al fine di mantenere inalterata la pressione tributaria).

Ciò premesso, vi sono alcuni elementi che andrebbero considerati con attenzione. Il primo è che abbiamo già un sistema di tassazione del carbonio applicato a livello europeo: l’emission trading. Un’eventuale carbon tax dovrebbe tenerlo presente, evitando l’applicazione di un doppio onere. Così come andrebbe considerata l’alternativa di potenziare tale strumento, invece che introdurre una nuova tassa, tanto più che ha il vantaggio di essere applicato a tutti i Paesi membri dell’Unione.

Il tema dell’armonizzazione comunitaria non è secondario, soprattutto se la carbon tax proposta si applicasse anche alle imprese. Se applicata alle famiglie si porrebbe invece il problema dell’ulteriore incremento della pressione fiscale, con buona pace delle varie promesse elettorali. In entrambi i casi occorre evidenziare che l’Italia già tassa i combustibili fossili più della media europea. Che le imposte in questione si chiamino carbon tax o siano collegate alle motivazioni più diverse (terremoti, alluvioni, missioni umanitarie, contratti di lavoro etc.) è ininfluente in termini di effetti. Il fatto che il Gpl e, soprattutto, il gas naturale siano tassati meno fa inoltre pensare che una logica ambientale sia già applicata. L’unica opzione fattibile di introduzione di una carbon tax aggiuntiva dovrebbe dunque passare per la condizione di mantenere inalterata la pressione fiscale sulle categorie di consumatori interessati.

Anche la discussione in corso sui sussidi ambientalmente dannosi potrebbe essere un modo per rimodulare in ottica ambientale le attuali imposte senza aggiungerne di nuove. La difficoltà sta nel fatto che la maggior parte delle voci indicate come sussidi ai combustibili fossili sia in realtà stata introdotta come aiuto a determinate categorie e usi, proprio perché non potevano non fare ricorso a certi combustibili, situazione che in alcuni casi è valida ancor’oggi. Non a caso alcune ipotesi di intervento sono state subito abbandonate. Ciò non toglie che sia possibile e auspicabile una riforma graduale, da attuare nel prossimo decennio. Di certo questa soluzione sarebbe più accettabile, ma non produrrebbe effetti dirompenti nel breve periodo.
Non penso poi che si possa continuare a spingere su politiche di decarbonizzazione nel nostro Paese e in Europa se non si trova il modo di fare pagare il contenuto di carbonio dei prodotti importati. Se il cambiamento climatico è una priorità, lo è a livello globale. Fare i primi della classe serve se l’esempio stimola l’imitazione e alza il livello generale. Altrimenti l’unico risultato sarà di spingere le imprese alla delocalizzazione e i consumatori a comprare merci con un’impronta di carbonio maggiore ma un peso sul portafoglio minore, con buona pace degli sforzi fatti. I risultati della demonizzazione del diesel negli ultimi anni sono un chiaro esempio di quello che non andrebbe fatto. Per avere una transizione energetica robusta dobbiamo dare il tempo alle nostre imprese manifatturiere di riqualificarsi, in modo che continuino a generare quel valore aggiunto che ci serve per investire nella decarbonizzazione e quel lavoro per i nostri concittadini che consentirà loro di riqualificare abitazioni e veicoli. Altrimenti avremo un’economia in recessione che produrrà comunque decarbonizzazione, ma dubito che saremo particolarmente soddisfatti (e del resto non è questo il cambiamento cui si riferiscono i modelli della decrescita felice).

Il tema della sostenibilità economica delle misure prese per il raggiungimento degli obiettivi di decarbonizzazione è a mio avviso centrale, che si ragioni su un’eventuale carbon tax o su altre politiche. Le risorse devono essere allocate tenendo presente non solo la convenienza, ma anche il tempo di ritorno degli investimenti promossi attraverso le varie misure (siano esse di tassazione del carbonio o di incentivazione di efficienza energetica e Fer) e gli effetti macroeconomici. La convenienza serve a garantire che un euro speso oggi ritorni con gli interessi (non quelli negativi di cui si parla in questi giorni, evidentemente…) domani. A tale proposito è giusto tenere conto delle esternalità ambientali e legate ai cambiamenti climatici, ma i conti devono poi quadrare (i.e. il Van deve essere positivo e il Tir accettabile). Il tempo di ritorno è rilevante soprattutto laddove si prendano in considerazione interventi ad alto impatto di capitale, come la riqualificazione profonda dell’edilizia o il sistema elettrico. Se il tempo di ritorno supera i dieci anni, ad esempio, ciò vuol dire che anche qualora il Van e il Tir siano accettabili, per quel lasso di tempo quei capitali non torneranno ad essere interamente disponibili sul mercato. È dunque importante spalmare gli investimenti in un tempo ragionevole, anche perché per molte soluzioni è prevista una riduzione progressiva dei costi.

Tutto ciò premesso, veniamo alla domanda se serva una carbon tax. Premesso che non ho la pretesa di conoscere la risposta migliore, riporto una considerazione semplice. Secondo le stime di Banca d’Italia, il risparmio delle famiglie italiane vale circa 4.300 miliardi di euro, di cui circa un terzo fermo su conti correnti che non generano interessi (dati Corriere della Sera febbraio 2019). Avremmo dunque quasi 1.400 miliardi da spendere in interventi che rispondano alle condizioni di rendimento economico sopra riportate con beneficio economico dei titolari dei risparmi e del sistema Paese  (sia per il giro economico generato, sia per gli effetti ambientali e sociali). Per confronto, il costo cumulato degli investimenti previsti dal Pniec da qui al 2030 è di 1.192 miliardi di euro, ossia meno dei risparmi infruttiferi.

La considerazione di base che mi viene di fare è che non sia necessario introdurre nuove tasse, che deprimerebbero ancora di più i contribuenti e le imprese, ma fare funzionare le politiche che abbiamo, indirizzando parte di questi risparmi in investimenti in efficienza energetica e sostenibilità, e ricreare fiducia nel sistema Paese e dunque disponibilità a investire. Il meccanismo dei certificati bianchi, ad esempio, è un tipico caso di come una gestione poco accorta abbia soffocato negli ultimi anni uno schema che aveva il potenziale di generare risparmi energetici, promuovere lo sviluppo economico di una filiera qualificata e contribuire agli obiettivi sull’efficienza energetica. Questa esperienza dovrebbe insegnarci che il problema non è tanto inventare nuove politiche ad ogni legislatura (tanto più vista la durata media di queste), ma capire come migliorare ciò che abbiamo. Del resto una maggiore stabilità degli strumenti aiuterebbe a creare quella fiducia di cui abbiamo bisogno.

Certo la politica dovrebbe interrogarsi sugli esiti di uno scontro perenne e di azioni mirate a cercare consenso agendo sulle paure e sulla polarizzazione dei sentimenti. Magari pagherà qualcosa in termini elettorali, ma non porterà mai a un clima costruttivo e sereno, ossia l’unico che può generare fiducia. Le sfide che ci attendono richiedono abili negoziatori, capaci di generare benefici per tutte le parti in causa, non rissose prime donne (anzi, viene da pensare che se fossero realmente donne forse sarebbe meglio).

Fonte: Dario Di Santo – QE