I sacrifici necessari per uscire dall’età del carbone

Con la Strategia energetica nazionale (Sen) adottata lo scorso 10 novembre, il governo si è impegnato a eliminare l’uso del carbone nella produzione elettrica nazionale entro il 2025

L’Italia, che oggi copre con il carbone solo il 15% del proprio fabbisogno elettrico, può essere fiera di questa scelta anche perché, a livello europeo, solamente tre Paesi hanno sinora assunto una promessa analoga: Regno Unito, Francia e Paesi Bassi. Il carbone continua a giocare un ruolo fondamentale nei settori elettrici di molti Paesi europei. Ad esempio, la Polonia produce l’80% della sua elettricità bruciando carbone, mentre Repubblica Ceca, Bulgaria e Grecia arrivano circa al 50%.
Ma pure Germania e Paesi Bassi, generalmente considerati come i Paesi europei più avanzati in termini di sostenibilità ambientale, continuano a produrre circa il 40% della loro elettricità attraverso il carbone. Questo persistente ruolo del carbone nel sistema energetico europeo rappresenta un triplice problema per il clima, l’ambiente e la salute. Dal punto di vista dell’impatto climatico, non esiste modo peggiore di produrre elettricità che attraverso il carbone. A parità di produzione elettrica, la combustione del carbone emette nell’atmosfera il 40% di anidride carbonica in più rispetto al gas naturale, e il 20% in più rispetto al petrolio. Anche per questo motivo, il carbone è responsabile dell’80% delle emissioni di anidride carbonica generate nel settore elettrico europeo, il quale rappresenta a sua volta un quarto delle emissioni totali di anidride carbonica in Europa. Il carbone continua dunque a rappresentare un ostacolo enorme sulla strada europea verso la decarbonizzazione, e per questo motivo la completa eliminazione del carbone dal sistema energetico europeo può ben essere considerato come un passo necessario per il mantenimento degli impegni assunti dall’Europa con l’Accordo di Parigi sul clima.

Dal punto di vista ambientale, le centrali elettriche a carbone rappresentano in Europa una delle principali fonti di emissione nell’aria di sostanze inquinanti quali l’anidride solforosa, il biossido di azoto, il particolato fine e ultrafine. Non a caso, secondo una recente analisi dell’Organizzazione mondiale della sanità, 47 delle 50 città più inquinate in Europa si trovano in Paesi dove il carbone gioca ancora un ruolo importante, come Polonia, Repubblica Ceca e Bulgaria. Questo fenomeno rappresenta un serio problema per la salute umana, in quanto le sostanze emesse nell’aria dalle centrali a carbone possono entrare nel corpo umano e causare patologie acute e croniche a carico dell’apparato respiratorio e cardio-circolatorio. La portata di questo problema risulta ancor più chiara considerando che, secondo l’Agenzia europea per l’ambiente, in Europa sono 450mila le morti premature registrate ogni anno come conseguenza dell’inquinamento dell’aria.

La scelta fatta dall’Italia di eliminare il carbone dal proprio sistema energetico entro il 2025 dovrebbe dunque essere replicata da ogni altro Paese europeo, sia per una questione di lotta al cambiamento climatico, sia per una questione di tutela dell’ambiente e della salute dei cittadini. Il dibattito interno ai Paesi dove più alto è l’uso del carbone sembra tuttavia non portare in questa direzione. Dalla Polonia alla Grecia, come dalla Germania alla Bulgaria, il carbone pare continuare a riscuotere supporto politico, fondamentalmente basato su due argomenti: sicurezza e competitività del sistema energetico da una parte e importanza dei posti di lavoro nell’industria del carbone dall’altro.
Il primo argomento, quello energetico, è comprensibile. In un Paese in cui il carbone ricopre un ruolo importante nella produzione elettrica nazionale, è difficile pensare a un’uscita repentina senza compromettere sicurezza e competitività del sistema. Quest’uscita può essere sicuramente pianificata su un orizzonte di più lungo periodo, ad esempio su dieci anni, accompagnando a un forte sviluppo delle rinnovabili il back-up flessibile del gas naturale. Tale transizione è già avvenuta in molti altri Paesi e la sua fattibilità non può dunque essere messa in discussione. Si tratta, fondamentalmente, di una questione di solida pianificazione e buone politiche pubbliche.
Il secondo argomento, quello sui posti di lavoro nell’industria del carbone, pare invece illusorio. Malgrado la narrativa interna a molti Paesi europei, dove si tende a percepire quello del carbone come un settore che genera molti posti di lavoro, i livelli di occupazione nel settore non paiono avere rilevanza sistemica in alcun Paese. In Polonia, dove i lavoratori nell’industria del carbone sono 100mila, essi rappresentano lo 0,7% della forza lavoro del Paese. Tale percentuale è ancor più bassa negli altri Paesi produttori di carbone: 0,5% in Slovacchia, 0,4% in Bulgaria e Repubblica Ceca, 0,2% in Romania, 0,1% in Grecia, 0,07% in Germania.
Considerando la limitatezza di questi numeri a fronte della grande importanza di eliminare l’uso del carbone per
mantenere le promesse dell’Accordo di Parigi, l’Unione Europea pare avere tutte le carte in regola per affrontare questo problema in modo aperto e costruttivo.

Ecco come. L’Unione europea potrebbe proporre a tutti i Paesi di fissare in modo volontario – come fatto dall’Italia – una data di uscita dal carbone tra il 2025 e il 2030. A fronte di tale impegno e del suo effettivo rispetto, l’Unione potrebbe porre in essere un sistema che garantisca un sostegno ai lavoratori impiegati nell’industria del carbone che perderanno il lavoro a causa della transizione. Dal 2006, l’Unione europea è dotata del Fondo europeo di adeguamento alla globalizzazione, il quale offre un sostegno a coloro che hanno perso il lavoro a seguito di importanti mutamenti strutturali del commercio mondiale dovuti alla globalizzazione. Il fondo supporta misure atte a reintrodurre il lavoratore nel mercato del lavoro, come le attività di istruzione, formazione e riqualificazione o il supporto all’imprenditorialità e alla creazione di nuove aziende. Lo scopo di questo fondo potrebbe essere ampliato, facendone un Fondo europeo di adeguamento alla globalizzazione e alla decarbonizzazione.

Considerando il numero di lavoratori occupati nell’industria del carbone a livello europeo, è possibile stimare che per arrivare a una completa cessazione dell’uso del carbone in Europa entro il 2027, circa 150 milioni di euro all’anno tra il 2020 e il 2027 potrebbero essere sufficienti a garantire il pieno sostegno a tutti i lavoratori che andranno progressivamente in esubero. Tale cifra rappresenterebbe lo 0,1% del bilancio annuo dell’Unione europea. Con un limitato impiego delle proprie finanze, l’Unione potrebbe dunque stimolare la rimozione di una delle barriere più importanti nel processo europeo di decarbonizzazione, contribuendo altresì al miglioramento dell’ambiente e della salute dei cittadini europei.

Fonte: Simone Tagliapietra – Il Sole-24 Ore