Programma green: la corsa a ostacoli di Biden
È comprensibile il sospiro di sollievo di chi, nel risultato delle elezioni presidenziali Usa, vede riaprirsi la prospettiva di una proattiva politica energetico-climatica americana, sancita dall’immediato rientro nell’Accordo di Parigi, ma ancor più dall’intenzione, manifestata da Biden, di investire 2.000 miliardi di dollari in un piano finalizzato a una decarbonizzazione dell’economia, con obiettivi analoghi a quelli del Green Deal Europeo. Tuttavia, una volta finito il sospiro di sollievo, è opportuno rimanere con i piedi saldamente piantati per terra. Il ricorso a un “ordine esecutivo”, utilizzato per annullare la decisione di uscire dall’accordo di Parigi (presa da Trump con lo stesso strumento) consentirà a Biden di ripristinare anche una serie di norme antinquinamento, di contenimento delle emissioni climalteranti e di tutela delle acque, rese molto meno restrittive da Trump.
Sarà meno immediato ridare la necessaria operatività all’Epa, l’agenzia per la protezione ambientale, il cui ruolo è stato continuamente ridimensionato, fino a renderlo pressoché inesistente, con ricadute anche sulla qualità e sullo stat0 d’animo del personale. Distruggere è molto più facile e rapido che ricostruire, e inevitabilmente ne risentirà l’attuazione delle nuove politiche ambientali. L’ostacolo più grosso, anche per quanto concerne la tempistica, riguarda gli stanziamenti richiesti per realizzare il programma di decarbonizzazione, che devono ricevere l’approvazione dei due rami del Congresso. Con un solo voto in più dei repubblicani al Senato e una maggioranza ristretta anche alla Camera dei Rappresentanti, non sarà facile far passare un programma così impegnativo.
Oltre tutto, l’esperienza del passato insegna che anche una solida maggioranza può non bastare, se un provvedimento colpisce gli interessi di Stati che hanno eletto parlamentari appartenti alla stessa maggioranza. La disciplina di partito è spesso un concetto ancora più labile che in Italia. Paradossalmente, queste resistenze potrebbero essere compensate dai voti di parlamentari repubblicani eletti in Stati che trarrebbero vantaggi dal provvedimento. Ad esempio, uno Stato repubblicano come il Texas ha continuato a promuovere le rinnovabili anche durante la presidenza Trump.
Tirate le somme, la realizzazione del programma green di Biden non è affatto scontata, anche perché potrebbe incontrare ulteriori difficoltà a livello giudiziario. Recentemente l’attenzione si è concentrata sulla nomina in extremis di un giudice della Corte Suprema, che ha allargato la maggioranza dei membri proposti da un presidente repubblicano. Pochi sanno (e pochissimi ne hanno parlato) che negli Stati Uniti sono di nomina governativa tutti i giudici federali, cioè quelli chiamati a pronunciarsi su casi non di pertinenza dei singoli Stati, fra cui tutto ciò che riguarda il clima e l’ambiente.
Per decenni questa procedura di nomina, che a noi europei appare in contrasto con la garanzia di terzietà dei giudici, è stata mitigata dalla complessiva prevalenza di un approccio bipartisan. Già in declino da qualche tempo, questa consuetudine è stata radicalmente capovolta durante la presidenza Trump, con la nomina di giudici in gran parte “schierati”. Di conseguenza, quanti ricorsi giudiziari contro decisioni dell’amministrazione Biden riceveranno una sentenza favorevole prima di arrivare alla Corte Suprema, rendendone obiettivamente più probabile la ratifica?
Va inoltre considerato che il trumpismo non evapora con la fine della presidenza Trump. Molte delle decisioni da prendere per riallineare gli Stati Uniti con gli obiettivi indicati dall’Accordo di Parigi, possono essere propagandate come un tradimento dell’America first ai quasi 74 milioni di cittadini che, malgrado la gestione della pandemia, hanno votato Trump. Quanto peserà sulle decisioni di Biden la sua volontà di passare alla storia come il presidente capace di riportare gli Usa a essere realmente più uniti, che potrebbe indurlo a ridimensionare alcuni obiettivi energetico-climatici?
Infine, anche se con modalità più soft, Biden dovrà continuare a prendere provvedimenti per arginare, nei limiti del possibile, la perdita di peso economico degli Stati Uniti sullo scacchiere mondiale. Per garantire gli obiettivi di decarbonizzazione ed evitare un “carbon leakage” dannoso per il tessuto industriale europeo, la UE sta esaminando l’ipotesi di imporre una border tax, che annulli il vantaggio competitivo di beni importati, dovuto a vincoli più permissivi per le emissioni climalteranti.
Quando parliamo di border tax, pensiamo sempre alle ricadute sulle importazioni dalla Cina, ma anche l’export Usa ne sarebbe colpito, e non è verosimile che in tal caso l’America di Biden porga cristianamente l’altra guancia. I quattro anni di Trump hanno imposto all’Europa di procedere in totale autonomia nella sua politica di decarbonizzazione. L’amico americano ritrovato rappresenta un valore aggiunto, ma, anche per evitare di perderlo e viceversa aiutarlo a superare le difficoltà che si frappongono alla realizzazione della sua politica green, non sarà possibile prendere decisioni cruciali senza un confronto con la presidenza Usa.
Fonte: Giovanni Battista Zorzoli – Staffetta Quotidiana