Lo shale gas americano in Italia, ma il futuro è con Gazprom
Per la prima volta lo scorso sei dicembre è entrato nella rete italiana gas americano. La fornitura è arrivata via nave sotto forma di gas naturale liquefatto (Lng) e immagazzinata nel terminal di Livorno. Poteva essere una rivoluzione, ma non lo è: proprio nel momento in cui l’America diventa esportatore di gas e potrebbe giocare un nuovo ruolo da 17 superpotenza energetica grazie ai giacimenti di shale gas e ai nuovi terminal marittimi per l’esportazione, l’Italia si appoggia a Mosca per una percentuale record delle sue importazioni energetiche e niente – fattori economici, politici, alleanze aziendali – suggerisce un cambio di scenario.
Undici anni dopo la prima grande crisi russo-ucraina che fece tremare l’Europa – timorosa di rimanere al freddo senza le forniture di Gazprom – e nonostante le sanzioni ancora in vigore dopo l’annessione della Crimea del 2014, l’Italia segna il record (percentuale) delle importazioni di gas russo: nel 2016 arriva da Mosca il 44% del gas usato dall’Italia e proveniente dall’estero, mentre in forte crescita è anche la quota proveniente dall’Algeria. Della mezza dozzina o più di terminal di rigassificazione che dovevano sorgere sulle coste della nostra Penisola per permettere al Paese di fare a meno di Putin ne sono in funzione tre, a nemmeno la metà della loro capacità. Quella attuale dei terminal italiani è pari a 15 miliardi di metri cubi/anno di cui 8 a Cavarzere, 3,8 a Livorno, 3,5 a Panigaglia. L’utilizzo 2016 è stato di 6,5 miliardi di metri cubi, il 43% della capacità teorica e circa il 10% del totale delle importazioni. Non esattamente la rivoluzione che si attendeva nei primi anni Duemila. Intanto, Eni cede il 30% del più grande giacimento nel Mediterraneo scoperto dalla compagnia italiana nel 2015 al largo dell’Egitto alla russa Rosneft.
Per la compagnia energetica la cessione del 30% di Zohr vale poco più di 1,5 miliardi di dollari, per l’Italia – se è ancora vero, come si diceva un tempo, che la politica estera si decide non tanto alla Farnesina quanto a San Donato Milanese – un biglietto di prima fila in un nuovo panorama mondiale in cui la Russia di Putin non è più per l’Occidente un potenziale nemico, o un pericolo, ma un partner strategico, come d’altronde sembra preannunciare la nomina a segretario di Stato Usa di Rex Tillerson, ex Ceo di ExxonMobil, da molti anni vicino a Mosca. Le mire espansionistiche del presidente russo, il pugno di ferro in Siria, la preoccupazione per la democrazia interna del Paese: tutto questo pare contare molto poco.
«Il gas americano», spiega Matteo Villa, research fellow dell’Ispi, «non è al momento un game changer. Per motivi economici legati ai costi, ma anche per il quadro politico». Sul secondo punto, non c’è molto da spiegare: l’America di Trump non è il soggetto che potrebbe “soccorrere” l’Europa qualora questa decidesse di rompere con Putin. Non lo farebbe militarmente e politicamente, non lo farebbe dal punto di vista energetico, incentivando l’esportazione di gas verso il Vecchio Continente. Per adesso infatti – ma lo scenario potrebbe cambiare se Trump ridurrà i vincoli per le perforazioni – lo shale gas americano che ha permesso agli Usa di azzerare la dipendenza energetica dall’estero, diventando anzi Paese esportatore, non ha ancora costi tali da essere competitivo per l’invio l’Europa, tranne in rari casi. Il prezzo dell’Lng è indicizzato al petrolio e questo spiega come sia stato possibile che la tedesca Uniper abbia acquistato gas americano nei mesi scorsi per rifornire il terminal di Livorno. L’affare è stato chiuso a fine novembre, quando ancora l’Opec non aveva raggiunto l’accordo per il taglio della produzione che ha causato il rialzo dei prezzi del barile. Eravamo quindi ai minimi e comunque si tratta di una fornitura particolare, un contratto a garanzia della sicurezza energetica nazionale che rispetto al totale delle forniture pesa molto poco, circa lo 0,01%. In condizioni normali, conviene all’Italia rifornirsi via gasdotti, soprattutto dopo aver ottenuto dai partner principali la rinegoziazione dei contratti di lunga scadenza. Il gas americano, insomma, per adesso è solo una possibilità “tecnica” per l’Italia che continua a rifornirsi dalla Russia per convenienza economica e perché ritiene di poter giocare con Mosca una partita più alla pari rispetto agli anni precedenti grazie ai mutati rapporti di forza tra domanda e offerta.
«Il calo della domanda energetica», spiega Villa, «mette in luce che l’Europa dipende dalla Russia non meno di quanto la Russia dipenda da noi che, altrimenti, non saprebbe come piazzare le sue risorse». A far dormire sonni tranquilli all’Italia ci sono alcuni fattori come la crisi economica e il calo della produzione che ha ridotto il fabbisogno energetico del Paese, e la crescita delle fonti rinnovabili per cui oggi l’elettricità ricavata da centrali alimentate a gas è “solo” il 33% del totale. Politica ed economia si intrecciano: l’Ispi, come ogni anno, ha compiuto un sondaggio tra 108 esperti di politica internazionale, economia, energia e i cui risultati saranno pubblicati a gennaio. Pagina99 può però anticipare alcuni risultati. Alla domanda “Quali sono le maggiori minacce a livello globale?”, solo l’1% risponde “scarsità di risorse energetiche”. Allo stesso modo, quando si chiede agli esperti “Quali sono le maggiori minacce per l’Italia?”, il maggior numero di loro indica la crisi dell’Unione europea e il rinnovarsi della recessione. Solo l’1% risponde “peggioramento dei rapporti con la Russia”. Mosca, così, da grande spauracchio è diventato un partner primario con cui, secondo la percezione di analisti ed esperti del settore, gli affari continueranno senza troppi scossoni. Con buona pace di chi, dopo il disastro umanitario di Aleppo, chiede di inasprire le sanzioni contro Mosca.
Fonte: Samuele Cafasso – Pagina99