Imprese, accelerano gli investimenti per ridurre le emissioni di carbonio

Servono impegni finanziari di medio periodo. In crescita la quota di chi li realizza ma la crisi economica spinge le società a preferire azioni di breve durata con budget modesti ma benefici quasi immediati sulle bollette. Così secondo uno studio Cdp

Hanno iniziato a guardare più lontano e sono più consapevoli, ma le loro ambizioni rimangono in parte frenate dalle incertezze economiche e normative. L’organizzazione non profit globale Cdp, che ogni anno raccoglie i dati sugli sforzi dell’industria per ridurre le proprie emissioni di carbonio, traccia il quadro delle aziende italiane. Dal report 2016, a cui hanno partecipato 42 grandi gruppi tricolore di vari settori, da Eni ed Enel a Italcementi, da Ansaldo a Snam, fino a Intesa Sanpaolo e Telecom Italia, emerge la svolta decisiva che negli ultimi anni ha investito il tessuto produttivo italiano. «Per la prima volta in sette anni le imprese hanno iniziato a stabilire obiettivi a medio termine per ridurre le proprie emissioni. Oggi il 37% sono fissati al 2020-2025, mentre l’anno scorso il 39% risultavano già scaduti nel 2014», spiega Diana Guzman, responsabile Cdp per il Sud Europa.

L’Italia si stava muovendo in questa direzione da cinque anni — «se nel 2011 le aziende con iniziative per ridurre le emissioni erano il 57%, oggi rappresentano il 98%» — ma chi sceglie di investire in questo ambito non si trova la strada spianata. «C’è stata una crisi economica importante che rende ancora poco sicuri agli occhi delle imprese gli investimenti con un ritorno a 25 anni nonostante siano i più efficaci, in un quadro reso ancora più complicato dalle incertezze normative». Il risultato è che le società sono portate a preferire azioni di breve durata, con budget modesti e benefici quasi immediati: nel 59% dei casi, le iniziative messe in campo rientrano nell’ambito dell’efficienza energetica, capaci di garantire risparmi in bolletta da subito. «Sono quelle più a portata di mano, con un processo autorizzativo più veloce in azienda e più semplici da implementare per chi ancora non è consapevole dei benefici economici che queste politiche possono generare».

Dopo un periodo di proliferazione di investimenti in risparmio energetico però, le imprese più consapevoli hanno già imboccato un’altra strada: se i progetti per l’efficienza rimangono la larga maggioranza e sono ancora quelli che producono il 50% circa dei risparmi economici, nel 2016 ad essi è stato destinato solo il 9% delle risorse (contro il 78% del 2015), mentre l’87% degli investimenti è andato a finanziare iniziative low carbon, come impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili, da cui deriva la metà del taglio complessivo delle emissioni di Co2. Sull’importante cambio di passo dell’Italia hanno influito anche le dinamiche internazionali: «Gli accordi di Parigi sul clima di dicembre 2015 per mantenere il riscaldamento globale entro i 2° e gli obiettivi per lo sviluppo sostenibile lanciati dall’Onu pochi mesi prima hanno fornito la cornice di cui le aziende avevano bisogno per pianificare il business a lungo termine. Oggi la gestione dei rischi legati ai cambiamenti climatici è sempre più integrata nelle strategie aziendali». Lo dimostra anche il fatto che il 98% delle imprese che hanno partecipato al report 2016 ha una figura nel suo organico che risponde direttamente per le iniziative legate al tema dei cambiamenti climatici e di queste l’85% prevede incentivi, quasi sempre economici, per il raggiungimento dei target di riduzione delle emissioni.

Il numero di incentivi destinati direttamente all’ad è più che raddoppiato rispetto all’anno scorso, passando dal 5% al 12%: segno, spiegano dal Cdp, di «una potenziale accelerazione nel cambiamento culturale delle aziende, guidato soprattutto dal coinvolgimento del livello più alto dell’organizzazione». Una delle sfide del futuro, sia per chi come il Cdp promuove un’economia a basse 36 emissioni, sia soprattutto per i capi di stato che hanno siglato l’accordo di Parigi ma adesso si trovano con il compito ben più difficile di attuarlo, è diffondere l’importanza di queste politiche anche nel settore manifatturiero e dei servizi. Di tutti i gli investimenti conteggiati dal report, infatti, «la grande maggioranza (94%) si riferisce ai due settori che generano anche i più alti volumi di emissioni: le utility e il comparto energetico», mentre «il settore dei materiali, il terzo principale emettitore, contribuisce solo con l’1,3% degli investimenti».

Un quadro destinato pian piano ad evolversi, anche sotto le pressioni dei capitali. Negli ultimi due anni, spiega Diana Guzman, «l’interesse degli investitori istituzionali per questo tipo di azioni è aumentato. Avere attuato delle iniziative per ridurre le emissioni è indice di una capacità di analisi e gestione dei rischi legati ai cambiamenti climatici. Gli investitori decidono sempre più spesso di puntare sulle imprese già pronte per una crescita a lungo termine in un futuro complesso, in cui le normative più stringenti e le risorse sempre più limitate faranno lievitare i costi».

L’organizzazione no profit globale Cdp raccoglie ogni anno i dati sugli sforzi dell’industria per ridurre le proprie emissioni di carbonio. Quest’anno ha sondato 42 grandi gruppi tricolore di vari settori, da Eni ed Enel a Italcementi, da Ansaldo a Snam, fino a Intesa Sanpaolo “Nel 2016, per la prima volta in sette anni, le imprese hanno iniziato a stabilire obiettivi a medio termine per ridurre le proprie emissioni. Oggi il 37% sono fissati al 2020-2025, mentre l’anno scorso il 39% risultavano già scaduti nel 2014”, spiega Cdp.

Fonte: La Repubblica Affari&Finanza