FER, incauto inseguire l’età dell’oro

Quando il diavolo si nasconde nei dettagli

L’età dell’oro non è mai esistita e non si realizzerà nemmeno nel futuro. Anche nel settore energetico. Sono passati meno di sette anni, ma la “Golden age of gas”, vaticinata dall’IEA, è da tempo scomparsa dalla scena. Nel 1954 Lewis Strauss, allora presidente dell’US Atomic Energy Commission, dichiarò che l’energia elettrica prodotta per via nucleare sarebbe costata così poco da non rendere più conveniente spendere i soldi per installare i contatori. Sappiamo come è andata a finire.

Quell’incauta affermazione mi è tornata in mente leggendo un paper dell’UBS, appena edito (Utilities 2030: what could abundant, clean, zero marginal cost power mean for Europe?), dove viene presentato uno scenario energetico credibile, ma ne se traggono conclusioni che prospettano l’ennesima età dell’oro. Secondo l’UBS, se i costi dell’eolico e del fotovoltaico continueranno a scendere seguendo la traiettoria attuale, diventeranno di gran lunga inferiori a quelli di qualsiasi altra tecnologia per la produzione elettrica. Essendo però a costo marginale nullo, non ci sarà alcun incentivo a contenere i consumi di kWh: non emettendo CO2, la domanda può crescere tranquillamente, senza provocare rischi climatici, per cui il concetto stesso di efficienza energetica diventa anacronistico. In effetti, il prezzo della produzione elettrica sarà poco variabile, per cui diventeranno possibili tariffe flat, come quelle attualmente praticate nelle TLC. L’analogia si ferma però qui.

Innanzi tutto, il potenziale di sfruttamento delle fonti rinnovabili in una determinata area non è soltanto intrinsecamente limitato; per lo meno in Europa, la crescita di impianti a fonti rinnovabili sarebbe ancor prima ostacolata, una volta raggiunta una intrusività incompatibile con altri utilizzi del territorio (e, per l’offshore, del mare). Inoltre, anche con un elevato livello di decentramento energetico sarà sempre necessario dotarsi di reti, il cui potenziamento, richiesto da una crescita eccessiva della produzione, sarebbe non solo altrettanto intrusivo, ma farebbe aumentare i costi per i consumatori. Conclusioni analoghe, per quanto concerne le reti e i costi aggiuntivi, valgono per l’eventuale importazione di elettricità dalla sponda meridionale del Mediterraneo.
In presenza di una tendenziale spinta alla crescita dei consumi, l’incremento dell’efficienza energetica diventerà pertanto ancora più necessario, non solo per contrastarne gli effetti diretti. Il paper dell’UBS non prende infatti in considerazione l’intero ciclo di vita dei nuovi impianti a fonti rinnovabili richiesti per far fronte a un aumento senza freni della domanda. Per quanto si riesca a sviluppare l’economia circolare, si dovrebbero estrarre nuove materie prime, raffinarle, produrre almeno in parte nuovi componenti degli impianti di cui, a fine vita, una se pur minima quantità andrà smaltita.

Altro “dettaglio” che non va trascurato, altrimenti il diavolo ne approfitta. Si parla di gas serra, perché la CO2 è la maggiore responsabile degli effetti climatici, ma non è la sola, e nei processi estrattivi e produttivi le emissioni di gas climalteranti non sono nulle. Non è quindi esatto affermare che la produzione di energia con sole fonti rinnovabili può crescere senza provocare cambiamenti climatici. Infine, non va mai dimenticato il secondo principio della termodinamica: la produzione, il trasporto, l’utilizzo di qualsiasi forma di energia alla fine si trasforma sempre in calore a temperatura ambiente, condizione che impedisce all’uomo di riutilizzarlo (a meno di non spendere altra energia).

Questo effetto è per ora trascurabile su scala planetaria. Ma il continuo aumento della produzione, trasporto e consumo di energia in tutte le sue forme ha fatto sì che nel 1974 il suo valore fosse pari a circa 1/20.000 dell’energia proveniente dal sole, mentre nel 2014 ha raggiunto traguardo di 1/10.000: in quarant’anni il calore a temperatura ambiente, dovuto agli utilizzi energetici dell’umanità, è quindi cresciuto di circa due volte, con conseguente effetto sulle temperature. E si tratta di una media trilussiana tra valori che variano parecchio da zona a zona del globo. Negli Stati Uniti siamo mediamente a 1/2.250, e una ricerca condotta da un gruppo di metereologi dell’università californiana di San Diego (Energy Consumption and the Unexplained Winter Warming Over Northern Asia and North America, uscito sul primo numero del 2013 di “Nature Climate Change”) concludeva che l’energia termica risultante dai consumi energetici nelle principali città dell’emisfero settentrionale causa un aumento di circa un grado della temperatura invernale alle latitudini caratterizzate da clima temperato o freddo.

Poiché a livello globale il valore critico del rapporto è generalmente assunto pari a 1/100, continuando col tasso di crescita della domanda di energia verificatosi negli ultimi decenni, lo si raggiungerebbe in circa due secoli e mezzo, perché anche la generazione con fonti rinnovabili alla fine produce calore. E duecentocinquant’anni sono poco più di un battito di ciglia, se misurato sulla scala temporale della storia dell’uomo.

Fonte: Giovanni Battista Zorzoli – Staffetta Quotidiana