Carbone, l’addio della turbo-finanza: “In tre anni la domanda crollerà”
Ora lo dice predice anche la turbo-finanza: i giorni del carbone, come fonte di produzione di energia elettrica, sono contati. Per cui conviene uscire al più presto da ogni forma di investimento. “Con l’aumento dei prezzi dei diritti di emissione, prevediamo che, entro tre anni, la domanda di carbone in Europa crollerà. Perché gli investitori stanno cominciando a capire che il cambiamento climatico non è più soltanto una questione politica, ma è una cosa reale”.
Lo sostiene Lansdowne Partner, uno dei primi hedge fund nato nel 1998: con base a Londra gestisce oltre 18 miliardo di dollari. Lo ha rivelato il Financial Times che ha dato risalto alle dichiarazioni di mister Per Lekander: un passato a McKinsey, Ubs e alla divisione investimento della Norges Bank. Ota gestisce circa 1 miliardo per conto di Lansdowne, tutti nel settore energia. “I governanti non tarderanno a intervenire ulteriormente sui diritti di emissione – è il suo parere – e questo farà crollare la domanda: nel giro di tre quattro anni coprirà non più del cinque per cento della domanda fino a scendere a zero, non appena si arriverà a un prezzo di 50 euro la tonnellata per i diritti alle emissioni”.
Non è un caso che la presa di posizione dell’hedge fund arrivi pochi giorni dopo l’annuncio di Glencore, uno dei colossi mondiali della materie prime: il gruppo con base in Svizzera ha deciso che metterà un tetto alla produzione di carbone, escludendo che ci sarà una ulteriore espansione delle sue miniere. I vertici di Glencore sono arrivati a questa decisione dopo le pressioni crescenti da parte degli investitori che chiedono un sempre impegno nei confronti dei temi legati alla governance, all’ambiente e al sociale. “Quando un gruppo come Glanocore prende una simile decisione, significa che qualcosa è accaduto”, ha chiosato Lekander. Il quale ha anche rimarcato come da un anno a questa parte, il clima – è proprio il caso di dirlo – sia cambiato. A fare pressioni sui manager perché prendano decisione sul climate change non sono più soltanto i fondi etici, ma la maggior parte degli investitori che si sono resi conto della transizione energetica e delle richieste che arrivano dall’opinione pubblica per un ambiente meno inquinato.
La strada, in ogni caso, non è lineare. I prezzi delle emissioni che erano lievitati per buona parte del 2019, sono poi scesi. Alcuni paesi cercano di ritardare il più possibile la fase di uscita dal carbone (il cosiddetto “phase out”): in testa c’è la Polonia che non ne fa solo una questione di mancanza di alternative alle sue centrali alimentate con il “coke”: avendo molte miniere, teme anche le ricadute sociali e occupazionali.
Ma la strada sembra segnata. Già ora in Europa, il carbone copre solo il 15% del fabbisogno di energia, contro il 38 per cento della media globale. E sempre più paesi hanno deciso la data in cui mettere al bando definitivamente il suo utilizzo. L’Inghilterra ha fatto proprio quello che ora Lansdowne Partner prevede per i suoi investimenti: ha introdotto un ulteriore “tassa” sulle emissioni, fissando il phase out al 2025. Per mister Lekander, un ulteriore accelerazione arriverà dal costante calo dei costi delle rinnovabili. Non per nulla, già ora l’80 per cento delle masse gestite dalla sua divisione è investita nelle utility protagoniste della transizione e solo il rimanente su materie prime. “Quello che è evidente – ha concluso Lekander – è che il carbone non funziona più per produrre energia. E presto l’intero settore subirà uno choc”.
Fonte: Luca Pagni – La Repubblica